"La libertà è indivisibile, e quando uno è schiavo, allora non sono tutti liberi" diceva il presidente americano John F. Kennedy il 26 giugno del 1963 davanti ad una folla sterminata di persone nel cuore di Berlino: gioia, speranza, orgoglio nello spirito di tutti i presenti in quella piazza erano stati d'animo dominanti ed in un periodo delicato come la Guerra Fredda, quel discorso fu una boccata d'ossigeno.
Nessuno era contrariato...tranne un uomo, gracile, secco, molto stanco: era un militare sopravvissuto alle due guerre mondiali e lì in mezzo alla massa, si sentiva diverso, si sentiva come se qualcosa mancasse all'appello.
Non sapeva cosa, non lo vedeva né toccava, lo percepiva.
Dopo quel discorso tutti i cittadini si sentivano custodi di un grande potere, quello della libertà tanto citata e cercata per decenni, finalmente nelle loro vite.
Non quell'uomo.
Lui continuava tormentato ed imperterrito a pensare e rimuginare, facendosi domande forse senza senso, forse geniali.
"Posso fidarmi? Sono libero? Ho davvero potere di cambiare le vicende geopolitiche del mio mondo?"
A queste domande lui non riusciva a rispondersi di si, sentiva come se fosse tutta una farsa, come una pedina nelle mani del più fenomenale degli scacchisti.
Restava in silenzio e osservava quelli che per lui erano degli stolti, vittime innocenti di una brutale bugia.
Secondo lui il mondo era governato da un gruppo di persone che mutavano la libertà del popolo in una scena di una commedia greca.
Il militare visse e morì schiavo di un sistema, ma libero di pensare in modo diverso, evadendo dalla conformità.
Non era un agnello destinato al macero.
Era un lupo pronto a rispondere al fuoco dell'illusione, dell'inganno.
La voce del popolo conta, sempre.
Almeno così dicevano.
Conta, si.
Finché non subentra un interesse individuale.
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