L’uomo, nella mitologia, ha la sua genesi dalle ceneri dei Giganti fulminati da Zeus dopo che essi divorarono il giovane Dioniso. Ecco dunque che l’uomo ha nelle sue carni il seme dei Giganti e nell’anima, nella psychè greca, quella di quel fanciullo divino. Dal regno animale da cui comunque proveniamo, siamo inequivocabilmente separati da quel qualcosa di ultraterreno: la coscienza di noi stessi, lo specchio in cui tutti ci riflettiamo. La stanza colma di luci, luci calde, più ombrate, soffuse, brillanti, che aspettano di essere incrociate dalla sensibilità dell’altro e destinate per sempre a cercarsi per ricostruire l’unità perfetta perduta. L’individualità cerca di arricchirsi con il contributo dell’altro io che genera quel cammino di amore e sentiero verso il divino.
Nella penombra di una casa silenziosa, nascosta agli occhi del mondo, esisteva una stanza avvolta nel mistero. Era la stanza degli specchi, un luogo in cui il riflesso non si limitava alla pelle ma penetrava nell’anima, scoprendo ciò che neppure il cuore osava ammettere. Gli specchi non mentivano né addolcivano la verità: mostravano ciò che era, ciò che sarebbe potuto essere e, forse, ciò che già si sta compiendo in un altro altrove ignoto. Là dentro si erano incontrati, quella possibile unità perfetta perduta. Un giorno d’inverno, quando il vento soffiava come un antico presagio e la neve cancellava le tracce e gli odori sulla terra, lei era entrata con lo sguardo di chi porta dentro un vuoto insondabile, accolta da lui con il silenzio di chi conosce già le risposte. Gli specchi avevano brillato al loro passaggio, rifrangendo prismi di infinite possibilità, creando un mosaico di sguardi, di promesse sussurrate senza voce, di tocchi sfiorati nell’aria densa e sospesa. In quella stanza il tempo si dissolveva come nebbia sotto il primo sole. Si guardavano senza parlare eppure ogni riflesso narrava una storia. C’era un tempo in cui si erano già amati? Ogni specchio era una finestra su un destino intrecciato, su una scelta mai compiuta, su una vita che, forse, altrove, stavano già vivendo. L’amore, altresì come la luce sugli specchi, è effimero e fragile. Un giorno lui tornò nella stanza e non la trovò. Al suo posto, un’ombra, un contorno vago che si dissolveva tra gli sgargianti riflessi. Gli specchi mostravano, ora, solo il passato, il ricordo di mani intrecciate, di sorrisi ormai sbiaditi, di un’assenza che si faceva presenza ingombrante. Lui cercò, toccò il freddo vetro e sussurrò il nome di lei. Gli specchi tacquero. Passarono giorni, settimane, forse anni, ma il tempo non aveva significato lì dentro. Lui continuava a tornare, sperando che un riflesso le restituisse un frammento di lei, un bagliore, un’eco lontana. Ma la stanza sembrava aver deciso: ciò che era stato, era stato. Proprio quando la speranza si stava esaurendo come la candela al termine della notte, qualcosa accadde. Nel riflesso più antico, quello nascosto nell’angolo più buio della stanza, la vide. Pareva che il tempo trascorso non avesse lasciato segni sul suo candido volto, come se non se ne fosse mai andata davvero. Lui, allora, comprese. Il riflesso non è mai la realtà, eppure esiste. Ciò che vediamo non è mai ciò che è, eppure persiste. Gli specchi non mentono, ma sussurrano verità che solo chi sa vedere può comprendere. Fece un passo avanti, poi un altro ed un altro ancora. Il suo volto e quello di lei si sovrapposero come un’immagine lucida e complementare, si fusero in un’unità perfetta che non conosceva più confini tra ciò che è e ciò che si crede. Poi, un istante. Uno solo. La stanza si svuotò.
๐ก๐ฒ๐ฌ๐ฌ๐ช๐ป๐ญ๐ธ ๐๐ฎ๐ต๐ต'๐ค๐ธ๐ถ๐ธ ๐'๐๐ป๐ถ๐ฎ
Testo scritto per la VII edizione del premio letterario nazionale Filippo Sanna - 2025.
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